L’officina dove il fabbro lavora il ferro per ricavarne attrezzi ed altri manufatti è detto comunemente fucina. Mascalcìa è invece il termine tecnico usato per indicare il laboratorio del maniscalco, il fabbro che prepara ed applica i ferri agli zoccoli dei cavalli e dei bovini da traino.
Di fatto i fabbri della Val di Stava esercitavano anche il mestiere di maniscalco.
Nelle loro fucine la forza ricavata dall’acqua era impiegata per muovere vari macchinari ed in particolare per il funzionamento dei magli – i martelli meccanici usati per battere il ferro – e del mantice che manteneva vivo il fuoco della forgia.
Impianto e suo funzionamento
Struttura esterna e macchine idrauliche
Le fucine ad azionamento idraulico sfruttavano l’acqua incanalata in una roggia artificiale (ròsta) che poi si immetteva in una gora di legno (canàl) che la trasportava fino a farla cadere, attraverso uno scivolo (zitón), sulle pale delle ruote che giravano in senso antiorario.
Nei canali, c’erano delle saracinesche che venivano manovrate dal fabbro all’interno della fucina, in modo che l’acqua cadesse più o meno abbondante sulla ruota idraulica (ròda). Da questa partiva l’asse che faceva azionare il maglio. Successivamente, l’asse poteva essere collegato ad una puleggia che, attraverso una grande cinghia, faceva girare un albero di trasmissione. Questo, a sua volta, mediante altre pulegge e altre cinghie, muoveva il maglio, la mola ad acqua, il trapano ed altre attrezzature.
C’era anche la botte dell’aria (bóte de la òra), un contenitore a botte, appunto, prima in legno, poi in calcestruzzo che, sfruttando la caduta dell’acqua di un apposito canale verticale, creava un risucchio d’aria che veniva incanalato e portato all’interno, sulla forgia, per mantenere viva la fiamma.
All’esterno delle fucine c’era anche il travaglio (travài) che serviva per sollevare i bovini (mucche soprattutto) allo scopo di ferrarli. Questi ultimi, infatti, non erano docili a quest’operazione come i cavalli da tiro.
Nel piazzale antistante alcune fucine, c’era anche la carbonaia (carbonàra) dove il fabbro preparava il carbone. Accatastava della legna formando un tronco di cono e quindi la copriva con rami di abete (dàse) e con una camicia di terra argillosa in cui praticava fori per l’aria. Il fuoco veniva appiccato all’interno del cratere, caricando legna più tenera e sottile dall’alto.
Si doveva sorvegliarla giorno e notte affinché non bruciasse, ma carbonizzasse con combustione imperfetta dall’interno. Il carbone vegetale così prodotto serviva, ovviamente, per la forgia.
L’interno era in terra battuta, di solito più basso del fondo stradale.
Addossata ad una parete c’era la forgia detta “fosinàl” (ma potevano essere più d’una, a seconda dei lavoranti) dove il fabbro riscaldava il ferro; sopra di essa c’era la cappa (màpa). Sul piano del fucinale erano sparse le tenaglie più usate; altre erano appese all’esterno della cappa.
Sempre sul piano del fucinale era pronta una scodella con del materiale terroso (molégno)che serviva per le saldature.
Sotto la forgia c’erano la riserva di carbone e vari attrezzi.
Accanto al fucinale c’era sempre un fusto in legno (barüsèl) per raffreddare o temprare il ferro.
Ben visibile poi c’era il maglio a stanga (màe) con a terra il piano di battuta (batidór); l’asse della ruota era munita di denti (tre o quattro) che facevano alzare la testa del maglio; ad ogni intervallo la testa ricadeva modellando l’oggetto o lo strumento. Il fabbro regolava la velocità del maglio facendo cadere più o meno acqua sulla ruota; ciò era possibile spostando dall’interno, tramite una stanga, il canale dell’acqua.
Quando il fabbro sgrezzava il metallo in lavorazione, faceva cadere meno acqua e quindi il maglio batteva con intervalli più lunghi, quando invece eseguiva le rifiniture o lavorava oggetti più piccoli, faceva entrare più acqua e il maglio batteva con frequenza maggiore.
Il maglio partiva quindi con colpi piuttosto lenti e cupi che, via via, si facevano più veloci e allegri. Divenivano una musica che si diffondeva in paese, tanto da suggerire la seguente filastrocca:
debitón, debitón, debitón
pagherón, pagherón, pagherón
con che pó, con che pó, con che pó
con fèri, con ciòdi, con ciàpe de vàca…
In mancanza della bót de l’òra, appeso con due spranghe di ferro al soffitto c’era il mantice (màntes) azionato, in genere, da un garzone.
Vicino alla forgia c’era un bel sasso in porfido con sistemata sopra l’incudine e, ai suoi piedi, mazza, martello, punzoni e tenaglie per le rifiniture o per la lavorazione degli oggetti più piccoli. In un angolo, addossato alla parete, un bancone con una morsa, una trancia a leva e vari altri strumenti. In un altro angolo, una mola per affilare gli strumenti da taglio. Al centro della fucina, una zona di deposito. Su di un bancone o appesi ad una parete in bella mostra, gli strumenti prodotti dal fabbro per la sua clientela.
Ma quali erano gli strumenti più comuni di sua produzione?
Praticamente tutti quelli usati in Valle dai nostri contadini, operai e artigiani: quindi zappe, vanghe, vomeri per aratri, falcetti, roncole (rangóni), accette, asce, picconi, badili, ferri di cavallo o per bovini (ciàpe), catene e ramponi per tirare il legname, tutte le parti in ferro dei carri, degli slittoni, dei mulini, delle segherie, solo per citare i più comuni e i più importanti…
Raccolta fotografica – Il lavoro del fabbro Il fabbro è Felice Vanzo di Daiano – Foto di Paolo De Gasperi
Raccolta fotografica – Il lavoro del maniscalco I maniscalchi sono Felice Vanzo di Daiano e Francesco Doliana (Cèschele) di Tesero – Foto Paolo Degasperi
Fonti:
Severino Cristel, Miro Delladio, Remo Delladio, Francesco Doliana, Antonio Iellici, Eugenio Mich, Vittoria Polo, Raffaele Zeni.
Estimo fondiario della Regola di Tesero (Archivio Comunale).
Ufficio tavolare di Cavalese.
A. Boninsegna, “Dialetto e mestieri a Predazzo”, Alcione, Trento, 1980.
don L. Felicetti e V. Canal, “Memorie storiche di Tesero, Panchià, Ziano”, Tip. Tabarelli, Cavalese, 1912 (ristampa 1985)
Interviste effettuate da: Ivan Canal, Alberto Deflorian, Luisa Deflorian, Massimo Fipinger, Jordan Pozza, Nadia Rosà, Giuseppe Zanon.
Ricerche d’archivio: prof. Italo Giordani.
Fotografia: prof. Paolo Degasperi (escluse le foto firmate).